di Italo Zandonella Callegher (marzo 2011)
Sono passati tanti di quegli anni che mi pare strano parlarne ancora. Era il 1959 quando mi recai per la prima volta nella Valle di Schievenin ad accompagnare Vittorio “Cuc” nelle sue peregrinazioni sul Massiccio del Grappa a cui Schievenin appartiene. È stato lui ad aprirmi le porte di quel piccolo regno incontaminato e a farmi conoscere quegli angoli romiti. Oggi ancor più solitari di ieri dopo l’abbandono delle case e degli appezzamenti improduttivi dislocati sopra il nucleo principale. I minuscoli borghi di Fobba, Costa Piana, Costa Caorèra, Caròt, Costaltèr, Case Sassumà, Casa da Nani, Col di Dante e Faladén alta restano solo nei ricordi. Vittorio era detto “el Cuc”, che in veneto significa cuculo. Come il simpatico volatile anche lui abitava nella casa della sposa. Seppur “abile cacciatore al cospetto di Dio” (come dicevano i vecchi Kaisejäger), il buon Dio non impedì che un giorno scoppiasse la canna del fucile lacerandogli una mano. Una delle sue tre figlie era diventata la mia morosa, perciò a me pareva bene non permettere che suo padre girasse per i monti da solo. Ero poco più che ragazzo allora, ma avevo voglia di conoscere, di vedere, di scoprire cose nuove. La caccia non mi attirava. Non mi interessava proprio, tant’è in vita mia sparai un solo colpo. Mirai a un misero caco che se ne stava solitario su di un albero spelacchiato dal freddo. Lo mancai e cadde da solo per sfinimento.
Sul fondo valle vidi una sfilata di rocce che potevano servire come palestra durante il lungo periodo invernale. Erano pareti basse, piene di verdura, ma con un po’ di pulizia potevano diventare arrampicabili. A quei tempi la settimana corta era ancora di la da venire e si lavorava anche il sabato, ma passavo la domenica sui “sassi” di Schievenin. In giro non si vedeva un cane. Sapevo che ogni tanto venivano in valle alcuni alpinisti trevigiani, ma stranamente non ci incontrammo mai. Forse avevamo orari e abitudini diverse. Restai solo a lungo, talvolta in compagnia di qualche raro amico. Alcuni amavano troppo le Dolomiti per arrampicare sulla lopa con appigli che ti restavano in mano e dissero che la cosa non era molto attraente.
Alla fine degli anni Sessanta conobbi nella palestra di roccia di Santa Felicita presso Bassano del Grappa il mestrino Vittorio Lotto (un altro Vittorio importante per me). Era un ottimo alpinista. Con lui iniziai la perlustrazione e una vera campagna arrampicatoria nella zona di Schievenin che ancora oggi mi riempie di nostalgia e di piacevoli ricordi. Lotto era istruttore nazionale di alpinismo, molto bravo, paziente, esperto, dieci anni più anziano di me; perciò fu un saggio e valido maestro, soprattutto nel campo della prudenza e della sicurezza dove io difettavo un po’. Simpaticissimo, pieno di trovate venessiane, protagonista di succose barzellette, lo chiamavano “il mago” perché dove nessuno riusciva a progredire, lui, piano piano, escogitando mille sotterfugi e intelligenti alchimie alpinistiche, riusciva infine a passare. Era un vero maestro soprattutto in artificiale. Allora l’artificiale era di gran moda e lo facevano tutti coloro che volevano spingersi in alto o spingere più in alto le difficoltà alpinistiche. Lo facevano anche coloro che oggi dicono di no e si strappano le vesti. Ho visto con i miei occhi un alpinista famoso (uno di quelli che oggi inneggia all’arrampicata libera e tratta con disprezzo coloro che hanno usato i mezzi artificiali) salire con un armamentario di staffe e chiodi a espansione da far sorridere. Non è una vergogna aver fatto dell’artificiale il proprio modo di progredire. Quelli erano i tempi e quello era lo stile. Nessuno gridava allo scandalo se usavi una staffa, l’etica non ne soffriva, i profeti non si stracciavano i maglioni e tutto filava dritto. Fino a quando, con l’avvento di una attrezzatura idonea e l’abbandono degli scarponi rigidi, ci si accorse che per un certo tipo di artificiale era giunta l’ora della soffitta.
Ricordo le staffe di Lotto e le mie (le ho ancora nel mio “museo”); al vertice avevano una maniglia ad uncino che, infilato nell’occhio del chiodo, permetteva di salire in modo sicuro e veloce. Molto di quanto è uscito in seguito sul mercato, lui l’aveva già inventato. Facemmo parecchie vie sulla destra e sulla sinistra del fondo valle, ma ci spingemmo anche in alto: sul Campanile Manuela in alta Val Sassumà, sulle rocce oltre il Cubo, sul Campanile Onigo, sul Torrione Nani, sulla Parete Gialla presso malga Zavàte, sul Castèl e la Cengia di Prada, ecc. Ci spingemmo anche verso Forcella Bassa dove visitammo le pareti strapiombanti sopra la misteriosa Grotta dell’Inferno e la Parete Grande che sta di fronte, ma era pane troppo duro per i nostri denti e preferimmo restare in basso “a rimirar le stelle”.
Il 1972 mi vide quale fondatore e direttore del primo corso d’alpinismo della Sezione Cai di Montebelluna e, naturalmente, portammo lì i ragazzi per i primi rudimenti. Poi la voce si sparse, arrivarono i mestrini, i veneziani, i trevigiani, i bellunesi, i vicentini e avanti così fino ai giorni nostri con una valle piena di gioventù in arrampicata gioiosa.
A dire il vero arrivò anche un po’ di casino con conseguente esaurimento per qualche vecchio contadino. Motivo: frequentazione poco rispettosa della proprietà privata, auto parcheggiate negli orti, prati da falcio violati per picnic e altre libertà. L’ira del buon Beniaminon si scaricò su di me, arma in mano (una mesóra, la falce messoria degli antichi romani), mentre facevo sicurezza al povero Lotto che stava arrivando in cima alla Bicicletta. L’omone era talmente inc… che tentò di tagliare la corda con il falcetto, mica scherzi! Finì bene, ma in quel momento capii che c’era ancora molta strada da fare e che dovevamo riconoscere loro come “i padroni della valle” mentre noi solamente ospiti, peraltro non paganti. Fui chiamato dal Sindaco per chiarimenti in seguito a lamentele dei proprietari. Fui convocato dai Carabinieri per lo stesso motivo. Tutti capirono che io non avevo nessuna responsabilità; ciononostante ebbi qualche problema, tanto che con il tempo mi allontanai dalla valle per protesta contro “i soliti noti” maleducati. Fu come staccarsi da qualcosa di caro. Il concetto che qualche locale si era fatto era questo: Zandonella doveva starsene a casa, vicino al focolare a menar la polenta e non rompere le scatole al prossimo “scoprendo” Schievenin.
Oggi tutto è calmo, c’è serenità e rispetto reciproco. Gli abitanti della valle rientrano nella categoria della “buona gente”. Purtroppo alle prese con pericoli di miniere e di acqua più che di palestra.
Nel 1974, sul numero due di Le Alpi Venete, esce un articolo che “lancia” la Valle di Schievenin come “trionfo della solitudine”. Auspicavo che l’invito a visitarla non finisse con il tramutare la valle in un immondezzaio. Mi pare che ciò non sia successo, grazie anche ai tanti ragazzi “puliti” che la frequentano. Resterebbe il problema del parcheggio, ma qui noi non possiamo fare nulla. Nel 1975 esce la prima edizione della guida Alta via degli Eroi, da Feltre a Bassano del Grappa, editore Tamari di Bologna. In appendice fa capolino, in modo timido e quasi riservato, una mini guida della palestra di roccia di Schievenin. Sono solo 22 vie, ma è pur sempre un inizio. Nell’edizione del 1986 (Sentieri, ferrate, arrampicate sul Massiccio del Grappa, Tamari) le vie descritte diventano 58, e sono solo le più importanti. Da allora sono passati quasi 25 anni e le vie di arrampicata, a tutti i livelli di difficoltà, oggi sono circa 400. Nel frattempo sono uscite altre guide: Pier Verri, Arrampicare nella Valle di Schievenin (edizione “Le Dolomiti Bellunesi”, 1988); Alfredo Pozza e Maria Petillo, Schievenin una valle in verticale (Canova, 1994); Maria Petillo, Schievenin, oltre le rocce (Canova, 1999); Pier Verri & Luciano Piccolotto, Schievenin, una valle da arrampicare (Zanetti, 2008). Ricordo anche gli scritti di A. Spavento, A. Campanile, G. Bressan, J. Rander e una menzione sul manuale didattico del Cai nel 1995.
Resta un rammarico. Si sperava che i locali approfittassero (commercialmente e turisticamente parlando) di questo flusso di visitatori, di questa manna piovuta dal cielo: sono migliaia i ragazzi che frequentano la valle. Si sperava che la comunità si desse una mossa agevolando l’apertura di un chiosco, di una trattoria, di un qualcosa che attraggano gli arrampicatori a restare qui, spendere qualche soldo, godere ancora un po’ di pace. Basterebbe un piatto di spaghetti o una salsiccia con polenta; qualche souvenir; cosa ci vuole?! Invece niente. Solo cose da bar nell’unico locale rimasto aperto in paese e meno male che c’è. Per fortuna alcuni giovani si sono ultimamente inventati una succosa primizia: toast con la soppressa da gustare nel bar della buona signora Mirella. Pare che vada per la maggiore.
Pitost de nient, l’è mejo pitost